sabato 5 novembre 2011

Trismegisto

 «Ora taci, figlio mio - dice Ermete al figlio Tat -, e osserva un religioso silenzio; grazie a questo, la misericordia non smetterà di scendere su di noi»Senza segreto, il discorso ermetico perde il proprio valore profondo. Asclepio invita il re Ammone a fare in modo che la rivelazione non giunga ai Greci, che hanno un eloquio «tracotante, fiacco e, per così dire, imbellettato», il quale sbiadisce la sacra nobiltà, il vigore e l'energia dello stile egiziano. Così, tra rivelazione ed estasi, trascorrono i grandi testi ermetici, come il Poimandres e l'Asclepio: con un potente slancio lirico, che si rapprende in sentenze da affidare alla memoria, con una specie di ebrietà lucida, che deve rendere il soffio divino che senza posa percorre l'universo.
«Immaginare dio è difficile - dice Ermete a Tat -: esprimerlo, quand'anche si riesca ad immaginarlo, impossibile»
Verso questo Uno, o Sopra-Uno, il dio, gli dèi e gli uomini conoscono una profonda trance ed estasi. Mentre i sensi sono intorpiditi, come accade a chi piomba in un sonno pesante, l'intelletto si leva in alto; e vede ed ascolta, perché la rivelazione è sia visiva sia acustica. La luce è senza limiti, serena e gioiosa: non è l'improvviso e violento raggio di sole che abbaglia e fa chiudere gli occhi; il fedele riesce ad accogliere la visione nitida, lucida, non accecante, o che attraversa la cecità, per salire sopra di essa. «Quando non avrai più nulla da dire sul bene - dice Ermete -, allora soltanto lo vedrai». Mentre dio tiene a lungo lo sguardo sul fedele, un tremore o uno smarrimento si impadroniscono di lui. Il dio gli dice: «Hai visto la forma archetipica, il Principio anteriore del Principio infinito». Allora il fedele prova un meraviglioso slancio e desiderio di conoscenza, e un egualmente meraviglioso compimento di questo desiderio. A nome di tutti i fedeli, Ermete dice: «Provai una gioia senza confini. Il sonno del corpo era divenuto attenta lucidità dell'anima, e stare con gli occhi chiusi era diventato un vero e proprio vedere; il mio silenzio si fece pregno di bene»
Così dio, l'Uno, è il Tutto. È tutte le cose: ha in sé tutti gli esseri; e nulla esiste al di fuori di lui, nulla in cui egli non sia: egli è persino le cose che non esistono, le ombre, le illusioni, le evanescenze. 
Infine, l'uomo si ricongiunge con dio, e diventa dio. Va più in alto di ogni sommità e scende più in basso di ogni profondità: raccoglie in sé tutte le sensazioni delle cose create, del fuoco, dell'acqua, del secco, dell'umido, e pensa di essere nello stesso tempo in terra, in mare, in cielo, non ancora nato, nel ventre materno, giovane, anziano, già morto, oltre la morte. Mentre risale lungo il percorso del cosmo, dovunque dio gli viene incontro, e dovunque lo vede: dove e quando non se lo aspetta, quando è desto, quando dorme, quando naviga, quando cammina, di notte, di giorno, quando parla, quando tace. Dio si specchia in lui, e lui si specchia in dio. La sua ascesa è la fine del dolore: è la conoscenza della gioia, la temperanza, la giustizia, la verità, il bene. Questo slancio in alto non lo porta verso il futuro: ma è un balzo all'indietro, verso le cose originarie e antiche. Alla fine non c'è altro che l'Uno.


http://www.corriere.it/cultura/libri/11_ottobre_26/citati-ermetismo_c005745c-ffd7-11e0-9c44-5417ae399559.shtml

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